La puzza sotto il naso

Caro Severgnini,
sul suo forum il giovane lettore Lorenzo Ferrario si duole (e lei condivide) che ci siano in giro troppi libri che non sono “vera letteratura”, e che la “vera” scrittura è ancora dominio di pochi. Trovo tale concetto equivoco. Lo scrivere non è diverso dal dipingere o dal fotografare o dal suonare, o dal fare sport. C'è chi arriva a livelli di eccellenza, altri si contentano solo di migliorare, e magari di tanto in tanto di produrre qualcosa di valido.
Se io non sono Cartier Bresson, non per questo non dovrei fotografare, se mi appassiona. I tanti mestieranti sono spesso un terreno di coltura, nel quale si sviluppano a volte i veri talenti. Una realizzazione che assurge all’eccellenza, in tutti i campi, non è quasi mai il frutto di un genio isolato, ma di un humus che produce molte voci, poche delle quali così forti da rimanere.
Forse lo scrivere non porta di per sè alla creazione di un'opera letteraria, ma non è nemmeno impossibile che lo faccia. Alla citazione di Milan Kundera, che "la donna che ogni giorno scrive all'amante quattro lettere non è una scrittrice, è una donna innamorata", si potrebbe ribattere che anche Anna Frank era solo una ragazzina che teneva un diario.
Quanto alle case editrici che pubblicano libri di cassetta, si dimentica forse che certi facili successi editoriali fanno bene ai loro conti, ed aiutano a tenere in catalogo anche classici meno letti. Altro che contendere il terreno alla “vera letteratura”. Curioso e contraddittorio che il bravo giovane polemizzi con i facili successi di mercato, ma poi si dolga del poco rilievo che assumono i lettori o comunque i fruitori esterni in certe operazioni. Al contrario! Il ruolo del pubblico è tanto più negletto quando l'artista ritiene di avere da dire qualcosa di talmente elevato che non gliene importa nulla di farsi capire. Veda certa musica colta contemporanea (Berio, Nono): autentico solipsismo.
Il vero scrittore si vedrebbe soprattutto dalla qualità di ciò che legge, come dice il suo lettore? Ricordo solo cosa mi disse al proposito Gabriel Garcia Marquez: che ai fini dell'apprendimento del mestiere, leggere cattiva poesia era tanto utile che leggerne di buona. Perché anche quella costituiva un esempio. Magari da non imitare.
Quando sento parlare di 'vera' letteratura, come di 'buona' musica, o peggio di “alta cultura” sento puzza di elitarismo. Non si comprende che il fenomeno artistico non è mai roba solo per addetti ai lavori, e diventa sterile se smarrisce un'anima popolare.
Caro Severgnini, sono un suo affezionato lettore. Non credo che i suoi libri saranno studiati nel XXII secolo accanto a Dante o Manzoni, ma dovremmo concludere per questo che le sue opere, non essendo “vera letteratura” non meritavano di essere stampate né lette?
Pubblicato sul Corriere della Sera online
http://www.corriere.it/solferino/severgnini/04-09-22/09.spm
Risposta del giovane Ferrario:
Ho letto con piacere e con interesse il suo intervento su Italians. Le sembrerà strano e contraddittorio, ma in parte concordo con lei. Infatti, nonostante un certo integralismo che forse emergeva dal mio scritto, sono ben lontano dal desiderare che la letteratura (e più in generale l'arte) diventi una cosa per pochi intimi. Ben vengano, come scrive lei, tutti quei "dilettanti" che scrivono senza essere Proust, dipingono senza essere Rubens e così via. Che siano però consci del loro essere dilettanti, del loro livello per così dire amatoriale, e che non si spaccino per ciò che non sono. Lei (come me, devo dire) prova piacere nel fare fotografie, ma nè lei nè io abbiamo mai allestito una mostra fotografica e ci siamo limitati al più a condividere i nostri "scatti artistici" con gli amici, i quali erano ben consapevoli di ciò che avevano sotto gli occhi. A mio parere il grosso problema di oggi è che il grande pubblico è così digiuno di "vera letteratura" da confondere i capolavori con della semplice paccottiglia. E se è vero che è sempre esistita una letteratura "popolare", questa si è sempre posta su un piano completamente altro rispetto alla "grande" letteratura. Lei ha ragione quando dice che devono essere salvaguardate entrambe (poichè la prima fa anche da serbatoio, da campo di prova per la seconda), io chiedo solo che restino divise, e non solo per futili elitarismi.
Resto in attesa, se crede, per proseguire l'interessante scambio di opinioni.
Cordiali Saluti
Lorenzo Ferrario
Controrisposta del sottoscritto:
Sì è vero, non ho mai allestito una mostra dei miei lavori (come fa a saperlo?). Ma non è stato per modestia. Semplicemente perché non mi interessava il giudizio degli altri. Non credo affatto che il mio sia un atteggiamento meritorio. Al contrario. Forse è assai più arrogante di chi espone in pubblico, e rischia una figuraccia. Come faccio, mi dica, a sapere se quello che ho fatto è valido o meno, se non mi confronto con un pubblico, più ampio di quello - naturalmente bendisposto - degli amici? Chi stabilisce, a priori, ciò che è valido o no? Al principio di ogni atto di comunicazione, c'è un segnale isolato, individuale, e piuttosto velleitario. Se nessuno lo raccoglie, cade nel vuoto, resta mera esternazione. Altrimenti diventa un legame che unisce. A volte, semplicemente, il messaggio non viene raccolto perché è troppo in anticipo coi tempi. Lei sostiene che un dilettante dovrebbe essere conscio di essere tale. Io le potrei contrapporre l'esempio di grandissimi che tutta la vita non furono mai abbastanza sicuri del loro genio, da Kafka a Van Gogh. Anna Frank morì senza avere una pallida idea di quello che il suo diario avrebbe significato per le generazioni successive. Leopardi e (mi sembra) Virgilio disposero addirittura che le loro opere venissero distrutte, dopo la loro morte.
Caro Ferrario, l'opera d'arte, una volta messa al mondo, vive una vita propria, indipendentemente da quella del suo autore. Potrei affermare che paradossalmente è l'opera che fa l'autore, e non viceversa: il signor Proust e il signor Rubens sono diventati a "Proust" e "Rubens" grazie alle loro opere. Non potevano certo saperlo prima se sarebbero diventati dei grandi.
Il valore di un'opera d'arte quindi non è dato dall'essere inserita a priori in certe categorie ('popolare' 'colta' etc.), ma dalla sua capacità di superare il tempo e lo spazio. Non esistono categorie predefinite, né l'arte vive in un empireo di addetti ai lavori che schizzinosamente stabiliscono a priori ciò che alto o ciò che è basso. Né purtroppo, il grande artista è garantito dal suo esser grande dal fare sconcezze che non sono alla sua altezza (nessuno rimpiange, di Gianlorenzo Bernini, due campaniletti eretti sul Pantheon che il sano popolo sghignazzante definì "recchie d'asino", meritoriamente demoliti nel 1890).
Certo, esistono i critici, le scuole, le accademie. Ma gli interessi che tutelano non sono sempre limpidi, gli esiti di certe recensioni sono a volte assai discutibili, persino comici (lei è troppo giovane per ricordare la burla dei falsi Modigliani: si faccia raccontare). L'unico verdetto certo lo dà la storia, e la perdurante capacità di un'opera di parlare alla mente e al cuore delle persone nel tempo e nello spazio.
La selezione è naturale, quindi non si angusti troppo se Cristina Parodi pubblica un libro. Né lei, né il grande pubblico - non tema - si montano la testa e pensano che sia nata una nuova stella della letteratura. Pensi piuttosto, e si rallegri, che chi entra in una libreria per comprare il galateo della signora, magari avrà voglia di comprare qualcos'altro, e magari anche di leggerlo. Stia tranquillo che chi ha una solida cultura ed è in grado di riconoscere un'opera d'arte non farà confusione. E, non dovendo dimostrare nulla a nessuno, potrà concedersi il puerile lusso - come nel mio caso oggi - di entrare da Feltrinelli per comprarsi un bel librone su Paperinik.
Cordialità
DQ

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