Quella bestia nel cuore

Trent’anni fa esatti, Gavino Ledda pubblicava “Padre Padrone”, poi portato sullo schermo dai Fratelli Taviani, in un memorabile film vincitore a Cannes. Il libro, autobiografico, raccontava il rapporto di asservimento di un figlio al padre, e ne proponeva un'analisi sociale e psicologica.
Le origini di questa relazione violenta e strumentale venivano individuate in una condizione antropologica arcaica di miseria ed isolamento. L’arretratezza culturale del pastore sardo preparava lo sfruttamento del padre sul figlio, la prevaricazione, la riduzione di quest’ultimo ad oggetto. Illuministicamente, la riscossa veniva dall’istruzione, dalla cultura che rendeva possibile un salutare contagio con stili di vita e mentalità più moderne.
Ora il film “La bestia nel cuore”, di Cristina Comencini, ritorna sul tema della violenza in famiglia (violenza sessuale, in questo caso, ma non mi sembra che questo sia il punto centrale) spostando l’obiettivo su una realtà antropologica e sociale diametralmente opposta.
Sabina e Daniele sono due fratelli che hanno subìto, durante l’infanzia, violenze da parte del padre, nel complice e omertoso silenzio della madre. I due si rincontrano dopo la morte dei genitori.
Daniele è diventato professore universitario e si è costruito una famiglia e una carriera in America, il più lontano possibile dalla casa paterna. Progressivamente ha fatto emergere il suo drammatico vissuto tramite una terapia psicoanalitica. Sabina invece ne ha la sconvolgente rivelazione solo in occasione della gravidanza, a causa di una riemersione dall’inconscio dei propri incubi infantili.

A differenza del padre-padrone pastore di Ledda, i genitori di Sabina e Daniele sono professori, appartengono alla classe colta, alla borghesia urbana della grande metropoli. Nulla, dall’esterno, sembra spiegare o preparare la violenza. Il pastore è violento perché ignorante, il padre di Daniele è violento nonostante non sia affatto ignorante. Daniele si domanda come egli abbia potuto fare ciò che ha fatto, malgrado la sua cultura, a cosa gli siano serviti i libri che ha letto, la scienza accumulata.

Il film descrive con grande efficacia come insospettabilmente la famiglia borghese tradizionale riesca ad isolarsi persino in un contesto urbano e professionale socialmente elevato. Dietro una maschera di perbenismo, nella professione di pubbliche virtù, al riparo da sguardi indiscreti, e molto spesso nell’indifferenza complice del contesto, questa famiglia diventa il teatro ove si recitano tragedie inaudite, il calderone di una sofferenza le cui vittime non trovano possibilità di sfogo, né umana solidarietà. La Comencini descrive plasticamente questa condizione, ritraendo una casa velata di polvere, dai mobili vecchi e dalle finestre oscurate, un luogo dove non circolano né aria, né luce, né affetti.
Dunque, ceto sociale, cultura, urbanesimo, istruzione, non sono assicurazioni di una vita felice né di una famiglia sana, nè sono sufficienti come via d'uscita.

Daniele assiste l’agonia del padre, non con affetto, bensì col desiderio di vederlo morire, e con lui di veder sparire i propri fantasmi. Si renderà conto poi che l’unico modo di cancellare per sempre la violenza dalla storia, sua e della sua famiglia, non è la morte ma la vita. “Le cicatrici non sono malattie”, dice, ci segnano per sempre. Ma questo non deve impedire di guardare avanti: Daniele e Sabina hanno figli, e costruiscono una nuova generazione alla quale, finalmente - imparando dagli errori dei genitori, ma anche impedendo a sé stessi di perpetuare una storia orribile - sapranno dare affetto e sicurezza, una cornice familiare sicura e un ambiente sano in cui crescere.

Molto brava e bella Giovanna Mezzogiorno, nel ruolo di Sabina. Pregevoli le nudità di Francesca Inaudi, se non la sua recitazione.


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PS Vabbè a me il film sembrava significativo, ma in effetti questo sfottò di Disegni ci coglie in pieno... Che iena...


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