PA e FFAA: le lezioni da apprendere

Nei mesi scorsi, nell’arco di pochi giorni, in Iraq e in Afghanistan, un nuovo tributo di sangue è stato imposto alle Forze Armate. La partecipazione popolare ai funerali delle vittime è stata ancora una volta, come fu per la prima strage di Nassirya, vasta e commossa.

Non mi importa qui discutere del merito o dell’opportunità della partecipazione italiana alle due missioni. Ma osservare il modo in cui, in pochi anni, è cambiata – in positivo - la percezione popolare delle forze armate. E chiedermi se ci sono lezioni da imparare.

Insomma: come Dirigenti dello Stato e Pubblica Amministrazione, abbiamo qualcosa da imparare dalle Forze Armate?

Ancora pochi anni fa, le Forze Armate erano un’istituzione assai impopolare. Il Paese viveva malvolentieri il tributo obbligatorio di un anno di servizio militare, la sconfitta bellica aveva lasciato dubbi (niente affatto infondati) sulle capacità delle nostre gerarchie militari, la sinistra nutriva sospetti sulla vocazione democratica delle stellette, adombrando addirittura - negli anni ’70 - scenari cileni. Dal canto loro i militari facevano poco per curare la propria immagine: la leva garantiva senza fatica un flusso costante di coscritti, le risorse erano abbondanti, la collocazione geopolitica dell’Italia, al riparo dell’ombrello NATO, riduceva al minimo il rischio di un conflitto; la carriera militare si presentava abbastanza comoda e priva di reali inconvenienti.

A partire dalla fine della Guerra Fredda, l’immagine delle Forze Armate presso l’opinione pubblica è costantemente migliorata. Di conseguenza, nel 2003, quando a Nassirya l’Esercito subì il più grave tributo di sangue dalla fine della seconda guerra mondiale, i funerali dei nostri soldati furono un momento di forte e commovente unità nazionale.

Gli italiani possono essere certamente divisi sul modo di impiegare le forze armate, sull’opportunità della missione in Iraq, ma è un dato di fatto che in discussione è sempre meno l’istituzione – Esercito in quanto tale. Le Forze Armate in pochi anni hanno saputo recuperare prestigio agli occhi dell’opinione pubblica, e presentarsi come qualcosa che appartiene a “tutti”, e rappresenta l’intera comunità nazionale. Un tempo istituzione-totem immobile e autoreferenziale – esse sono state costrette ad aprirsi alla società, hanno dovuto cominciare a giustificare la loro esistenza, ed evidenziare il valore aggiunto della spesa militare, prima percepito come un impiego a fondo perduto.

La Pubblica Amministrazione, invece, continua ad essere largamente screditata, e percepita come una palla al piede per l’economia nazionale: non un’istituzione di tutti, ma una res nullius. La struttura amministrativa viene spesso considerata – persino da quella classe politica che si trova pro tempore a capeggiarla - del tutto priva di valore aggiunto, un costo secco da tagliare il più possibile quando le necessità della finanza pubblica lo richiedano. La ‘burocrazia’ è un ostacolo da superare, non un partner per cittadini ed imprese. La carriera nella P.A. ha scarso prestigio e richiamo, ed è percepita come il refugium peccatorum di coloro che non saprebbero mettersi in competizione sul mercato del lavoro privato.

È un dato di fatto talmente endemico che ormai lo consideriamo quasi naturale, dimenticando che in paesi a noi molto vicini, la funzione pubblica gode di ben altro prestigio.

Possiamo immaginare, allora, scenari diversi, magari traendo lezioni dal modo in cui le Forze Armate hanno risalito la china della considerazione popolare? Io credo che gli aspetti da tenere in considerazione, e se possibile, da imitare, siano essenzialmente due: l’internazionalizzazione (con la standardizzazione che ne consegue) e la ridefinizione degli obbiettivi.

Internazionalizzazione
In primo luogo, le Forze Armate sono oggi un’istituzione fortemente aperta e internazionalizzata che si confronta con le omologhe istituzioni straniere. Mentre un tempo l’unico unico momento di confronto tra eserciti era sui campi di battaglia, oggi la qualità delle prestazioni (vale a dire dell’efficienza, operatività, mobilità) delle FF.AA. può essere misurata in quanto esistono precisi benchmark di riferimento.

Questo avviene grazie alla minuziosa standardizzazione NATO, che ha reso paragonabili carriere, procedure e performances: gli ufficiali italiani possono confrontarsi continuamente con i propri colleghi stranieri e importare immediatamente le best practices elaborate altrove.

Si tratta di uno choc culturale non da poco per quella che un tempo era una casta chiusa ed autoreferenziale. Oggi è cresciuta una generazione di giovani Ufficiali che passa una significativa parte del proprio addestramento all’estero e ha un’apertura mentale sconosciuta alle generazioni più anziane.

La P.A., invece, continua ad essere autoreferenziale. Gli esperimenti di internazionalizzazione ed interscambio con paesi partner sono ancora a livello embrionale. Ogni amministrazione statale coltiva il proprio particolare senza sentire la necessità di un proficuo confronto verso l’esterno. Questo isolamento è spesso contrabbandato come qualcosa di positivo, necessario ed inevitabile, in nome di una supposta “specificità” (vedi il caso del ministero della Giustizia). Di fatto, ogni amministrazione tende a chiudersi in sé stessa, come un corpo separato, e ad elaborare proprie consuetudini procedurali, al punto che sarebbe più corretto parlare di ‘pubbliche amministrazioni’ al plurale. L’abolizione del ruolo unico ha aggravato questo quadro facendo cessare la preziosa funzione (almeno potenziale) della Dirigenza come corpo connettivo capace di parlare un linguaggio comune e trasversale a tutta la P.A.

La mancanza di standard riconosciuti a livello nazionale (per non parlare del livello internazionale) fa sì che anche le best practices – meno rare di quanto si creda - rimangano episodi di eccellenza isolati, perché, semplicemente, non sono esportabili. Le prestazioni e le performances della P.A. non sono misurabili né comunicabili. Né la PA è capace di imparare dai suoi errori, ed è quindi percepita come impermeabile alle critiche e quindi, ancora una volta, autoreferenziale, una “mònade” senza porte né finestre.

Ridefinizione degli obbiettivi
In secondo luogo, il mutamento del quadro geopolitico e la crescente scarsità delle risorse a disposizione, hanno imposto alle FF.AA. una ridefinizione degli obbiettivi e un adeguamento delle risorse.

Negli ultimi anni, tanto la sinistra che la destra, alternatesi al governo, hanno dovuto prendere la difficile decisione di servirsi dello strumento militare: la realtà del mondo ha imposto così a tutte le parti politiche di interessarsi dei problemi della Difesa.
I militari hanno saputo colloquiare con la politica, ed imporre una realistica e responsabile presa di coscienza delle possibilità di impiego, vale a dire del rapporto necessario tra inputs ed outputs.

Non potendo più contare sull’apporto costante di militari di leva, le Forze Armate hanno dovuto diventare un datore di lavoro serio e credibile, attento al corretto impiego delle risorse materiali e soprattutto umane. A chi entra a far parte delle Forze Armate oggi si offrono piani di sviluppo di carriera diversificati e chiari.
Insomma, tanto verso il referente politico quanto verso l’opinione pubblica, i militari hanno saputo comunicare il senso della propria “mission”.

La Pubblica Amministrazione continua invece a navigare a vista. Essa non ha saputo imporre alcun protagonismo culturale, nessuna idea forte della sua identità e del suo sviluppo, insomma, del “cosa serve e a chi serve”.

Continuiamo a lasciare che ci diano addosso come parassiti, siamo incapaci di spiegare la nostra funzione sociale, il nostro valore aggiunto, il nostro contributo alla prosperità, ricchezza, progresso del Paese. Ci culliamo nell’idea che basti un semplice ritorno alla Costituzione, alle sue garanzie di legalità ed indipendenza ed imparzialità, per trovare una funzione nella società di oggi. Perdiamo di vista che il nostro datore di lavoro non è “la Nazione”, concetto fumoso, ma una comunità di cittadini - utenti – contribuenti di carne e sangue, che pagano le tasse e si attendono riscontri.

Dopo un’epoca a fine 800, in cui la PA ha saputo esprimere anche la classe politica, oggi siamo ridotti a una sudditanza culturale che ci impedisce di imporre alla politica un quadro realistico del rapporto tra risorse (sempre più scarse) e impegni (sempre maggiori). Convinti come siamo che il nostro compito è applicare imparzialmente delle norme, che piovono dall’alto, siamo incapaci di proporre una prospettiva dinamica e proattiva.

Coscienza del ruolo del dirigente nella Pubblica amministrazione, e della PA nella comunità nazionale, senso della propria missione: è questo che dobbiamo recuperare, se vogliamo, a pieno titolo, essere “classe dirigente” del Paese.

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