Si lavora e si fatica per ...?

Una mia (ex) amica mi ha segnalato un articolo pubblicato sulla rivista “Forbes” da un certo Michael Noer, che esprime la tesi secondo cui è meglio non sposare donne in carriera, in quanto esse sarebbero statisticamente più propense al tradimento, meno ad avere figli, e i loro matrimoni si sfasciano con maggiore frequenza.
A dire della mia (ex) amica, si tratta di un articolo maschilista e quindi dovrebbe piacermi assai.

Beh, tanto per cominciare, non mi sento un maschilista. Il mio ideale di donna è tutt’altro che una brava mogliettina che sta in casa a badare ai fornelli e ai marmocchi, se non altro perché ho avuto una madre che ha rinunciato al lavoro per fare la casalinga e so quanto ciò possa produrre frustrazioni, di cui fanno le spese, purtroppo, la famiglia e i figli.
Certo, conciliare casa e lavoro è per una donna particolarmente difficile e stressante, ma è vero anche che esiste un ormai consolidato schema culturale e sociale che assegna alla realizzazione della donna nel lavoro una maggiore importanza, e considera l’impegno domestico e la maternità una scelta di ripiego, da affrontare quando le cose veramente “prioritarie” sono state sistemate. Basterebbe però andare nella vicina Danimarca, un paese nient’affatto maschilista, con donne emancipatissime, per vedere mamme giovani, che si formano molto presto una famiglia, e poi lavorano. Lì, una struttura sociale che funziona non chiede alle donne di scegliere tra carriera e famiglia, ma consente loro di avere l’una e l’altra cosa, rispettando i tempi della natura. Il risultato è un boom demografico visibile ad occhio nudo: Copenhagen
letteralmente pullula di bambini.

Quanto all’articolo in questione, non mi pare affatto che sia maschilista: esso si limita a riportare alcuni studi pubblicati da diverse riviste scientifiche, che concludono nel senso di una coincidenza statistica tra matrimoni falliti e carrierismo femminile. Di studi e riviste del genere ce ne sono tanti, dicono tutto e il contrario di tutto, a seconda del punto di vista che assumono: pertanto ho sempre avuto dubbi sulla pretesa scientificità delle cosiddette scienze sociali (proprio la mia ex-amica, tra l’altro, è una che, per mestiere, sforna studi sociali).
Inoltre l’articolo è frutto di una particolare realtà, quella americana, dove la guerra tra i sessi è giunta a un punto di tale acrimonia che persino uno sguardo intenso può fruttare una denuncia per molestie sessuali (io in America, manco a dirlo, starei a Sing-Sing già da parecchio).
Se posso esprimere il mio punto di vista sull’argomento, non credo affatto che il conflitto tra carriera e famiglia riguardi solo le donne. Un matrimonio può essere ugualmente infelice anche se a essere troppo assorbito dalla professione è l’uomo. Insomma, quello che conta, ai fini della riuscita di una relazione, è quanto di sè ciascuno dei partner voglia spenderci.

Credo che, molto schematicamente, la classe lavoratrice si divida in due categorie: quelli che lavorano per vivere, e quelli che vivono per lavorare.
I primi vedono nel lavoro solo un modo onesto di guadagnare il pane,
acquistare beni per rendere felice la loro famiglia e confortevole la loro casa, e in più possibilmente conoscere gente interessante e fare qualcosa di utile nei lunghi intervalli tra una vacanza e l'altra.
Per i secondi è il lavoro in sé ad essere gratificante: dà loro importanza, identità, uno scopo nella vita e un posto nella società, definisce chi e cosa sono. Senza, si sentirebbero perduti, vuoti, inutili. Non esiste niente di altrettanto, o più, importante, e il tempo libero, per loro, è semplicemente tempo perso.
Per i primi, il lavoro non è che un mezzo, per i secondi è un fine assoluto.

Non è una questione di generi, né di professioni: il discrimine è l’atteggiamento individuale verso la vita, dell’ordine di priorità che ciascuno assegna a valori come i sentimenti e la famiglia. La donna “in carriera”, dunque, non è che la versione contemporanea e in gonnella di un personaggio maschile anaffettivo che esiste da secoli, e che gli inglesi efficacemente definiscono “workaholic”: un malato vero e proprio, una persona disturbata e squilibrata, un tossicodipendente della professionalità. Come tutti i tossici, è una persona che combina i maggiori guai proprio a chi più dovrebbe voler bene.

A parte quei pochi casi in cui il partner è al tempo stesso compagno di lavoro e di vita (Pierre e Marie Curie, Masters & Johnson), le persone che danno tanta importanza al lavoro, se sono oneste, si condannano da sé al celibato, magari comprandosi un cane o un gatto su cui riversare i propri bisogni affettivi. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, esse ritengono, in assoluta buona fede, di essere perfettamente normali, e quindi, come tutti, cercano di formarsi una famiglia e di avere un partner e dei figli; di
conseguenza si circondano di infelici. Quelle stesse persone che sul piano professionale sono ricche, generose, passionali, interessanti, nell’ambito privato diventano sorprendentemente avare di tempo e di attenzioni. Al partner chiedono pazienza e comprensione, ma intanto lo marginalizzano nella scala degli impegni e delle priorità.
Solo che i tempi in cui Ulisse poteva permettersi di assentarsi vent'anni per far la guerra, e bighellonare nel Mediterraneo, per poi ritrovare la mogliettina rimasta fedele a casa a tessere la tela, sono finiti da un pezzo, e per fortuna: sono poche le persone che hanno una così bassa autostima e dignità da accontentarsi di vedersi assegnato in permanenza un ruolo secondario nella vita del partner. Logicamente, dunque, e doverosamente, il rapporto si sfascia.

A questo punto il lettore smaliziato avrà ben capito che la mia (ex) amica di cui sopra è in realtà una mia ex-fidanzata, e che, se io mi identifico pienamente col tipo umano della prima categoria (con chi, cioè, lavora per vivere), lei rientra piuttosto nella seconda, essendo del tutto assorbita dal lavoro. Quando avrò aggiunto che essa fu capace di abortire (non un figlio mio, grazie al Cielo) pur di non interrompere la sua lanciatissima carriera accademica, e che pretendeva addirittura che io passassi dalla sua segretaria per poter fissare i nostri incontri ... qualcuno potrà seriamente rimproverarmi se me la sono data a gambe, e sto ancora correndo?

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