Gli scansafatiche

Caro direttore, Pietro Ichino, dalle colonne del Corriere, ha rivolto ai sindacati dei lavoratori pubblici tre domande sul problema di come garantire efficienza nei pubblici uffici.

Penso di dover rispondere anch’io, a nome del mio sindacato. Cida-Unadis rappresenta i Dirigenti dello Stato, e aderisce ad una confederazione, la CIDA, che, riunendo dirigenti pubblici e privati, coniuga in sé la cultura amministrativa con quella privatistica.

Com’era prevedibile, il dibattito suscitato da Ichino è stato infarcito di tutti i luoghi comuni sul pubblico impiego, visto quale naturale refugium peccatorum di scansafatiche ed incapaci.

Non è così, naturalmente, ma non perderò neppure un minuto a negare che tipi del genere esistano effettivamente nell’amministrazione pubblica: fosse anche uno solo, è uno di troppo.

Il nostro paese, impegnato com’è in una competizione epocale con economie di dimensioni colossali, non può più permettersi di tollerare rendite di posizione e rami secchi, e deve fare appello a tutte le sue energie produttive. La pubblica amministrazione deve fare la sua parte, ed è un bene che si cominci a considerarla un settore produttivo, e non, come finora si è sempre fatto, un peso morto del quale non vale nemmeno la pena occuparsi.

Il problema dell’efficienza, dunque, riguarda anche noi dirigenti, in una triplice veste: come cittadini, come pubblici dipendenti, e come responsabili del governo degli uffici e del personale.

Diciamo subito che, già oggi, la retribuzione dei dirigenti pubblici è legata alle responsabilità dell’ufficio ricoperto e alla valutazione dei risultati conseguiti.
Il nostro sindacato ha contribuito a diffondere la cultura meritocratica del rapporto tra prodotto e retribuzione, combattendo qualunque ipotesi di distribuzione “a pioggia” delle indennità di risultato. E non solo a parole: Cida-Unadis, per esempio, si è opposta - inutilmente opposta - alla distribuzione a pioggia di un imponente premio di produttività (per maggiori entrate a vario titolo nelle casse dello Stato) ai dipendenti del ministero dell’Economia - una vicenda che Gian Antonio Stella ha raccontato sul Corriere del 29 dicembre del 2005 - ed ha presentato, alla magistratura del lavoro, ricorso per comportamento antisindacale nei confronti dei ministri Siniscalco e Tremonti, i quali, motu proprio, avevano destinato compensi maggiorati (+ 65%) indistintamente a tutti i dirigenti (e non dirigenti) di due dipartimenti del Ministero .

Quanto alla mobilità dei dirigenti, la legge Frattini l’ha strangolata, abolendo il Ruolo Unico dei Dirigenti. Noi, invece, con l’ultimo Ccnl abbiamo contribuito a introdurre un meccanismo che consenta il passaggio da una all’altra amministrazione e quindi un autentico mercato delle professionalità.
E si potrebbe continuare: chi volesse approfondire le nostre iniziative può trovare una completa documentazione sul nostro sito www.unadis.it.

Gli episodi citati dimostrano che, se la cultura della valutazione e del risultato è stata profondamente assimilata dalla dirigenza, così non può dirsi per il referente politico. Il perché è abbastanza chiaro: una cosa è elargire generose regalie, altro è impegnarsi in una rigorosa azione di definizione degli obbiettivi e verifica dei risultati. Una cosa è legare le carriere dei dirigenti ai meriti e ai risultati conseguiti, altro è avere mano libera per poter premiare la fedeltà politica. I dirigenti che finora hanno perso l’incarico, infatti, non sono certo stati rimossi in base a valutazioni meritocratiche, ma per il meccanismo spartitorio dello spoils system.

Stretto nella morsa collusiva tra politica e sindacati del personale, il dirigente, come datore di lavoro, si trova in una ben scomoda posizione: è valutato, ma non può valutare i suoi collaboratori. Riceve una retribuzione per i risultati che raggiunge, ma è privo di analoghi poteri di incentivazione economica nei confronti del suo personale .

Delle sanzioni disciplinari che possono essere inflitte al pubblico dipendente (nell’ordine: rimprovero, multa, sospensione dal servizio, licenziamento), il dirigente può irrogare autonomamente solo i rimproveri. Le altre sanzioni sono di competenza delle commissioni disciplinari paritetiche, le quali, per superiori esigenze di pace sociale con le organizzazioni sindacali, il più delle volte assolvono il lavoratore e mettono alla berlina il dirigente che ha promosso l’azione disciplinare.
Fatto ancora più paradossale, la Legge Frattini rimanda ai contratti collettivi la definizione delle sanzioni disciplinari e delle modalità per irrogarle. Tali contratti vengono negoziati tra la parte pubblica e i sindacati del personale non dirigente: noi non abbiamo alcun potere di intervenire nella contrattazione, nemmeno quando, come in questo caso, essi disciplinano poteri dirigenziali.

Ben venga, dunque, una revisione della normativa che metta in grado i dirigenti non solo di sanzionare gli impiegati, diciamo così, poco produttivi, ma anche di premiare e valorizzare, entro regole chiare e certe, le molte persone capaci e in gamba che pure ci sono e delle quali, chissà perché, non si parla mai.

Come formulata, però, la proposta Ichino ricorda molto le decimazioni in voga durante la prima guerra mondiale. Vogliamo allora ricordare che a vincere quella guerra non fu Cadorna, fautore delle punizioni esemplari, ma Diaz, che seppe motivare ufficiali e truppa e condurli alla vittoria?

Inviata al Corriere della Sera 13 settembre 2006

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