Morti di lavoro


Sono diventati (quattro)(cinque)(sei) sette gli operai morti nel rogo alla Thyssen Krupp di Torino. E, al di là delle voglia di menare la proprietà per le sue arroganti dichiarazioni, vorrei fare due riflessioni.

La strage viene a smentire molti luoghi comuni: quello per esempio sul “privato” creatore di benessere mentre il settore pubblico è un’appendice parassita, capace solo di intralciare la libera impresa con controlli burocratici. La spesa per la PA è per definizione “spreco”, e quindi meritevole soltanto di tagli. Poi accadono queste tragedie, e torna immediatamente di moda la Pubblica Amministrazione, ci si accorge che mancano gli ispettori del lavoro e delle ASL, si invocano più regole, più controlli. Però ci si dimentica che è quello che noi, lo Stato, facciamo tutti i giorni: assicurare il vivere civile della comunità.

E poi le facili semplificazioni dei sociologi per cui il lavoro alle soglie del terzo millennio è creatività, affermazione di sé, e via dicendo, in un crescendo di lirismo neo-bucolico. Certo, ci sono i workhaolics, quelli che amano lavorare e tirar tardi in ufficio. Ma la tragedia ci ricorda che il lavoro è ancora per molti, la maggioranza, solo una parte della vita che si cede per poter vivere l’altra. Che esso occupa sempre più il nostro tempo, assorbe sempre più le nostre energie. Si comincia a lavorare per vivere, e si finisce a vivere per lavorare. O, in casi estremi, a morire.

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