Sindacalista, e me ne vanto

Se qualcuno mi avesse detto dieci anni fa che avrei fatto il sindacalista gli avrei dato del matto. Ma è così, sono un sindacalista, e anche piuttosto importante: sono membro della Segreteria nazionale della Cida Unadis (il sindacato dei dirigenti dello Stato), che rappresento al tavolo negoziale del Ministero della Giustizia e per la quale curo anche il settore comunicazione con il sito www.unadis.it e la newsletter. Presto la mia opera volontariamente e gratuitamente, in aggiunta al mio lavoro. Per me si tratta di un’esperienza assolutamente positiva, sia dal punto di vista professionale che umano, dalla quale ho imparato molto. Grazie anche a uomini generosi e di grande spessore, quali il compianto Giuseppe Negro. Vado molto orgoglioso della fiducia che riscuoto ogni volta che riesco a fare un nuovo iscritto: e ne ho fatti parecchi.

Si tratta di un sindacato di nicchia, che rappresenta una determinata categoria professionale, ben lontano dalla onnipresenza tentacolare dei confederali CGIL-CISL-UIL: ma - anche grazie a loro - per il grande pubblico, occorre riconoscerlo, “sindacato” è una parolaccia che evoca corporativismo, privilegio, «un apparato che, presentandosi come legittimo rappresentante di tutti i lavoratori, in nome di una concertazione degenerata in diritto di veto, pretende di mettere becco in qualunque decisione di valenza generale, ma in realtà fa gli interessi dei suoi soli iscritti, ai quali sacrifica il bene collettivo, mettendosi ostinatamente di traverso a qualunque riforma rischi di intaccarne uno statu quo fatto di privilegi », come scrive Stefano Livadiotti, giornalista de L'Espresso nel suo “L'altra casta” (aspettiamo un giornalista che abbia il coraggio di scrivere anche un libro sulla Casta dei giornalisti, per completezza ed onestà). Un altro libro interessante al riguardo è: “A che serve il Sindacato” di Pietro Ichino, scritto ai tempi in cui ancora non aveva trovato facile bersaglio (e popolarità) nella Pubblica Amministrazione.

Tutto vero, certo. Ma vorrei proporre una riflessione. Erano gli anni 80, e tutti ce l’avevano a morte con i partiti: macchine di potere, burocrazie enormi ed opache. Riformare i partiti? Assolutamente no, il sistema andava abbattuto, punto e basta. Poi arrivò Mani pulite, e fu tutto un crucifige. Erano loro, i partiti, la causa di tutti i mali. Un quarto di secolo più tardi i partiti non ci sono più, e non per questo siamo più felici. Al loro posto i movimenti, con i loro leaders carismatici, inamovibili ed indiscutibili, che governano per diritto divino. Organizzazioni leggere come tele di ragno. Niente più liturgie estenuanti (ricordate i congressi della DC al PalaEUR?), il consenso viene guadagnato montando i gazebo, facendo primarie dal risultato scontato. Niente più politica sul territorio, con le fumose sezioni dove si ragionava e si dibatteva. Che c’è da discutere, ormai? “Al dialogo abbiamo sostituito il comunicato” scriveva già Camus ne ‘La Caduta’. E così una decina di persone, in questo paese, hanno ormai il potere di decidere tutto, a partire dalla composizione del Parlamento. E uno della mia età si sorprende a rimpiangere la DC, il PCI, sì ... persino il PSI (nei momenti di nero pessimismo).

Ecco allora, che dopo aver buttato via i partiti per ottenere questo bel risultato, starei attento a fare la stessa cosa anche con i sindacati. Il movimento sindacale italiano deve essere riformato, a partire dall’ingiustificata posizione di privilegio di cui gode ancora la Triplice. Ma qualcuno che rappresenti il valore del lavoro ci vuole.

E piano anche a parlare di Casta: chi protesta non sempre è innocente. Troppe ne ho viste di persone che vogliono essere assistite dal sindacato senza associarsi. Chiamateli free riders o semplicemente italici furbi. Chi rappresenti gli italiani, o una parte di essi, in politica o nel sindacato, si trova sempre davanti questi meravigliosi istrioni, sempre pronti a mugugnare, mai a schierarsi a viso aperto, mai ad agire per l’interesse collettivo, mai a pagare un prezzo per ottenere un risultato. Gli eterni scontenti che però non muoveranno mai un dito per cambiare le cose: quelli che
Gramsci chiamva "gli indifferenti". La società civile, sarebbe ora di dirlo, non è poi tanto migliore di quella politica che la rappresenta.



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