Università e disoccupazione

Un articolo che denuncia molte responsabilità della cosiddetta istruzione superiore:

Corriere della Sera 23.1.11
La lezione (scomoda) dei tunisini più laureati, meno occupati
La crisi svela un trend che tocca i giovani dal Nord Africa all’Europa
di Giulio Sapelli


La rivolta tunisina è un fenomeno molto complesso che richiederebbe un’analisi amplissima. Vorrei limitarmi qui a sottolinearne un carattere universale. Essa, infatti, ha in sé il nocciolo di un processo sociale e culturale molto più generale, che va ben oltre il fronte del Nord Africa, che è assai differenziato e variegato. E’ il problema della disoccupazione giovanile. Essa inizia ad assumere, per via della globalizzazione, caratteri di crescente omogeneità in alcuni strategici nessi della costruzione sociale mondiale che si sta evolvendo sotto i nostri occhi. E’ una trasformazione silenziosa che sconvolge molti luoghi comuni e costringe a rivedere certezze che parevano acquisite. Vediamo. La prima è quella per cui la crescita economica e il tasso di uguaglianza dei sistemi sociali hanno come indicatore l’estensione dell’istruzione universitaria. Tale istruzione è comunemente intesa sia come fenomeno di mobilitazione sociale verso l’alto, sia come risorsa occupazionale, che garantisce ai portatori di essa di rafforzare la loro posizione sui mercati del lavoro. Questa asserzione è falsificata dall’analisi dell’andamento occupazionale mondiale: non vi è nessun rapporto aggregato tra aumento della scolarizzazione e aumento dell’occupazione. Quest’ultima, nella rapidità dell’aumento tecnologico in corso, aumenta soprattutto laddove si addensano i mestieri con forte intreccio di manualità e di competenze rare, acquisite tramite la trasmissione dell’esperienza e il contatto tra vecchie e nuove generazioni (artigianato, mestieri industriali e di servizi fortemente non replicabili su scala di massa): esperienza e contatto che sono fondamentalmente estranei a qualsivoglia corso universitario, di base o di specializzazione ch’esso sia. L’istituzionalizzazione della trasmissione del sapere uccide il sapere stesso e disperde in tal modo immensi patrimoni conoscitivi non formalizzati. E questo perché nelle agenzie adibite dal conformismo sociale alla cosiddetta «formazione » , altro non si fa che riprodurre gli occupati nelle agenzie stesse. Del resto, più sono aumentate queste agenzie— prime fra tutte le business school e i master d’ogni genere — più la non occupabilità è aumentata su scala mondiale. Il secondo punto che è stato sollevato grazie, ahimè, alle sofferenze dei giovani tunisini, vittime di una dilagante e oscena indifferenza crescente verso le sofferenze degli ultimi, è che la forma con cui è avvenuta la costruzione dell’istruzione superiore di massa è fondata sul rifiuto del lavoro manuale e dello studio tecnico-scientifico, che richiedono dosi ingenti di sacrificio, di rinuncia alla libertà indiscriminata di disporre del proprio tempo e dei propri impulsi desideranti. Preparare un esame di ingegneria o di chirurgia è un sacrificio immenso rispetto a un esame di comunicazione o di cultural studies. Si conseguono in tal modo due risultati devastanti: i giovani giungono al vertice dell’istruzione formalizzata senza saper far nulla e spesso senza saper nulla (per lo scadimento che in tutto il mondo hanno avuto i curriculum dei docenti); la società vede mancare quella quota di professioni e di saperi che sono indispensabili per far riprodurre la società medesima: dai periti tecnici agli ingegneri, dai matematici ai medici chirurghi, dagli infermieri ai geologi e ai sismologi. In questo modo si raggiunge anche un altro risultato pericolosissimo per la crescita e lo sviluppo: mancano le persone in grado di reindustrializzare le società del prossimo millennio. Perché è questa l’altra visione a cui la rivolta tunisina ci costringe ad accedere: non esiste una correlazione positiva tra la percentuale che i servizi hanno nel Pil e la definizione che grazie a ciò si può dare di una società definendola come una società «avanzata» . Recentemente un mio cortesissimo interlocutore pluriaccademico, in una discussione sulla rivolta tunisina, rivelava il suo stupore per l’insorgenza dei movimenti di massa perché essi avvenivano nella società più «avanzata» del Nord Africa, ossia con una percentuale dei servizi rispetto al Pil del 60%. Dove i servizi, lo sanno tutti coloro che hanno conseguito la terza media, possono essere anche il chioschetto che vende datteri come l’internet cafè…. In questo senso dobbiamo gioire per le parole pronunciate da Jeff Immelt, ex CEO di General Electric, che Obama ha appena nominato a capo del Council on Job and Competitiveness, quando ha affermato a chiare lettere che se si continua a puntare sui servizi non solo gli Usa perderanno in competitività, ma la disuguaglianza continuerà ad aumentare. Giungo così all’ultima questione: la disuguaglianza non è stata affatto diminuita da questa distorta diffusione delle pratiche di istruzione formalizzata negli istituti scolastici di ogni ordine e grado. Gli studi più interessanti a livello internazionale oggi sono quelli che si accentrano sull’eguaglianza e sulla disuguaglianza. Ebbene: non solo quest’ultima è aumentata in ogni dove, salvo in quei paesi ch’erano un tempo poveri ma che ora si sono «agganciati» alla crescita globale, ma il suo dilagare non è stato affatto frenato dall’aumento dell’istruzione universitaria di massa. I giovani che si sono immolati sino a perdere la vita in Tunisia hanno reso evidenti a tutti queste tragiche verità. E’ ora di cambiare. Oggi veramente la campana suona per tutti noi, in tutto il mondo. 

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